“Glam city – Catania, Milano del sud”

“Glam city – Catania: la Milano del sud”

Roberto Russo e Giuliana Corica

foto di Gianluigi Primaverile

 

Potrebbe essere questo il sottotitolo di “Glam city”, il romanzo di Domenico Trischitta, giornalista, scrittore e drammaturgo catanese,  esordito al Teatro “Piscator” di Catania, per la regia di Nicola Alberto Orofino, in una trasposizione che poco lascia all’immaginazione.

Un unico attore e protagonista, Silvio Laviano, che veste i panni ”scomodi” di Gerry Garozzo, catanese sconosciuto ai più degli anni ’70, trasformista, gay, a suo modo rivoluzionario, con un talento artistico da cantante, in auge negli ingenui e sfacciati anni ’70, che crede fortemente in quel ruolo, donando colore ad una scarna e volutamente minimalista scenografia fatta di un palco di pallet e da un mare di lava. Unico punto luce del grigiore umano un ingombrante lampadario anni ’50, tutto cristalli e Swarovski,  che quasi sembra puntare anche lui il suo dito luminescente su dei tacchi a spillo rossi (scarpette rosse fantastiche o tragico simbolismo di un troppo inflazionato omicidio di genere?).

Un amore viscerale per una città “bastarda” il suo, che si rivolge alla pancia degli spettatori e che, nel panorama delle città del sud Italia, spicca per le sue peculiarità e per i suoi abitanti. Una città santa e puttana, una città in cui le contraddizioni la fanno da padrone. 

Ma “Glam city” è anche uno spaccato, è eccesso, un eccesso fatto di vite al limite. A  far da cornice una città squallida come tante, Catania, che si fa beffe di quei personaggi che, come Gerry, vogliono uscire dal ghetto in cui vengono rinchiusi i travestiti, via delle Finanze su tutte, mirando a poter essere se stessi, ma nelle zone “bene” della città “Glam city – Catania: la Milano del sud”.

 Oltrepassare quell’astratto limite invalicabile fatto da quegli uomini sedicenti normali: questo il loro obiettivo, senza tener conto, però, che proprio chi utilizza i servigi di questi “uomini” vuole fortemente che tutto resti lì, relegato, chiuso e confinato.

Il desiderio forte di affermazione, artistica ma sopratutto identitaria, lo fanno approdare a Londra, affascinato dalla glam rock di Marc Bolan. Il sogno si infrange. La voglia di esserci lo porta a tentare di coronare il suo sogno nella figlia dell’Etna, figliastra ipocrita per nulla aperta ai suoi sogni di reminiscenza londinese. É la volta di Milano, la grande metropoli che lo etichetta come travestito.

Un gioco di dialoghi sofferti, in cui la struttura stessa del dialogo si snatura per farsi monologo. Un monologo tanto muto quanto frastornante, in cui si rappresenta un silenzio di necessità forse taciute troppo a lungo, in una società sedicente moderna, ma gretta sin nel midollo.

In un turbinio di parrucche colorate zuppe d’acqua, si avverte lo stato di affogamento di questo mondo quasi ai margini che annaspa in un mare di ipocrisia, in cui il finto perbenismo domina il pensiero comune. L’unica chance rimane proprio questa per continuare a sopravvivere: restare invisibili per essere riconoscibili! 

Del resto siamo esseri umani alla deriva sessuale ed esistenziale e – forse – fare la rivoluzione su tacchi alti e vestiti appariscenti è ancora un po’ presto. Ma tutto il mondo non è paese? Catania non è forse come Milano?

No. Catania non è Milano. Catania è solo travestita da Milano del sud.

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