“Carmen” al teatro “Bellini” di Catania
Carmen: in principio fu balletto
Applaudito il penultimo titolo e secondo balletto della stagione 2017, del Teatro Massimo “Vincenzo Bellini” di Catania
Carlo Majorana Gravina
La macchinosa novella di Prosper Mérimée “Carmen” (1845), rivisitata e semplificata da Henri Meilhac e Ludovic Halévy, è andata in scena, nella versione del Balletto di Milano, sulle musiche di Georges Bizet.
Giuseppe Montemagno, con garbo sapiente, accompagna l’elegante poetico saggio introduttivo del libretto di sala “Prima che si alzi il sipario”, con una stringata “cronologia” che suggerisce, per non dire spiega, il grande successo scenico, in versione di opera o balletto, ottenuto da questo titolo sin dal suo esordio.
Prosper Mérimée (1803 – 1870), cultore di misticismo, storia e inconsueto, influenzato dai romanzi di sir Walter Scott e dalla crudezza e dei drammi psicologici di Alexander Pushkin, con un certo gusto macabro gotico, nel 1830 aveva conosciuto in Spagna il conte di Montijo Cipriano de Palafox y Portocarrero de Guzmán, donna Manuela, consorte del conte, e la figlia Eugenia che andrà sposa a Napoleone III. Ispettore generale dei monumenti storici di Parigi nel 1834, suggestionato dalle 450 tele di autori tra i quali Murillo, de Zubarán, de Ribera, Cano e Vélasquez radunate nella Galleria Spagnola del Louvre (inaugurata il 7 gennaio 1838 per volere di Luigi Filippo), traspose nella novella “Carmen” un racconto raccolto in casa Montijo, pubblicandolo in forma di feuilleton mensile in quattro capitoli su la “Revue des deux mondes”, apponendovi l’epigramma misogino di Pallada “Ogni donna è come fiele, ma ha solo due momenti felici: il primo il letto, l’altro la sua morte”.
Novella macchinosa, colma di simbolismi, in cui la protagonista “ostenta una bellezza medusea” (Mara Lacchè), quindi sommamente simbolica e mitologica, che nelle numerose fortunate trasposizioni teatrali e cinematografiche si avvarrà dei prototipi e semplificazioni di Meilhac-Halévy (1875).
L’invenzione/intuizione di Mérimée fu folgorante: l’eterno assoluto conflitto tra amore e morte (eros e thanatos), bene e male, percorso in varie chiavi romantiche, in “Carmen” ha cifra “politica” laddove si confrontano e sfidano regole e trasgressioni, forma e sostanza, dovere e libertà dal dovere, la bohème, il “diverso” che affascina e stordisce.
Nel 1845, appena pubblicata la novella dalla “Revue des deux mondes”, Marius Petipa, maître de ballet marsigliese e figura fondamentale nella storia del balletto, intuendo il valore del soggetto, mise in scena “Carmen et son Toréro” al Teatro del Re di Madrid (autore delle musiche sconosciuto). Ma la più “gettonata” versione coreutica probabilmente è quella creata da Roland Petit, con Zizi Jaenmaire, nel 1949 (oltre 5.000 repliche ad oggi).
Nella versione del Balletto di Milano, compagnia fondata nel 1998, sostenuta dal MiBACT e patrocinata dal Comune di Milano, direttore artistico Carlo Pesta, prende corpo un “personaggio”, solitamente immateriale ma aleggiante su tutta la storia: il destino (Andrea Torrielli), che con maschera ambigua, agitando tarocchi e altri strumenti di predizione del futuro, conduce il gioco sino all’ineluttabile tragico epilogo che attende i quattro protagonisti: Carmen (Alessia Campidori/Angelica Gismondo), Don José (Alessandro Orlando), Escamillo (Federico Mella/Germano Trovato), Micaela (Marta Orsi). Ideazione scenica Marco Pesta, direttore generale e scenografo.
L’orchestra del “Bellini”, diretta da Gianmario Cavallaro, ha supportato efficacemente le coreografie di Agnese Omodei Salé e Federico Veratti ideatore dei costumi, giocati sul valore simbolico dei colori bianco, rosso e nero. Quasi in controcanto, i suadenti “colori” delle musiche “moresche” di Bizet (habanera, la Chanson de bohème, le due suite ricavate da L’Arlésienne) bene esaltati nei dialoghi tra “fiati” (nella compagine anche un sassofono, strumento coevo della novella di Mérimée), nei momenti di tensione drammatica affidati ai “legni”, nelle fasi “luminose” sottolineate dall’arpa, disegnano il versante montuoso della “Spagna gotica” che guarda al Sud “arabo”.
Un testo di grande suggestione perenne, incentrato su un’etnia per propria scelta in continua diaspora (rom, zingari o gitani che dir si voglia), attualizzato dalle cronache e vicende che si ripropongono oggi ad ogni latitudine del pianeta.
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