Leo Gullotta è l’arguto professor Toti del “Pensaci, Giacomino!” di Luigi Pirandello, in scena al Teatro Stabile di Catania

Leo Gullotta è l’arguto professor Toti del “Pensaci, Giacomino!” di Luigi Pirandello, in scena al Teatro Stabile di Catania

 Lettura drammaturgica e regia di Fabio Grossi, scena e costumi Angela Gallaro Goracci e le musiche di Germano Mazzocchetti completano un’efficace rivisitazione della pièce pirandelliana

Carlo Majorana Gravina

 

Leo Gullotta, ancora nella “sua” Catania, ha portato in scena, in prima nazionale, “Pensaci, Giacomino!” di Luigi Pirandello, prodotta dallo Stabile etneo e dalla Compagnia Enfi Teatro.

Nella lettura drammaturgica e nella regia di Fabio Grossi l’azione è concentrata in un atto unico di un’ora e mezza. Col mattatore Gullotta agiscono in scena Liborio Natali, Rita AbelaFederica BernValentina GristinaGaia Lo VecchioMarco Guglielmi, Valerio Santi e Sergio Mascherpa. Angela Gallaro Goracci firma scena e costumi, Germano Mazzocchetti le musiche, Umile Vainieri le luci.

La rilettura di Fabio Grossi pospone l’azione negli anni ’50: «In piena ricostruzione, agli inizi del boom industriale che porterà il paese a godere “di unicorni dorati” dal profumo della libertà ritrovata, per consolidare la contemporaneità della storia raccontata e abbandonare fogge d’epoca. Faccio così lasciare da parte il Voi reverenziale, che porta subito a galla una condizione anacronistica. I protagonisti sono sovrastati da “Giganti”, atti a rappresentare l’enorme peso del becero commento, della calunnia sociale, del perbenismo fasullo dei baciapile. Non abbandoneranno mai la scena, proprio come “corsi e ricorsi storici” vocazionali, tòpoi pirandelliani sempre presenti nelle sue opere. La musica, non di semplice commento, ma forte e propositiva, è “la voce critica della regia”, permutante liriche scritte da Pirandello e usate a commento della tragedia civile che si va consumando sulla scena».

«Con questo testo – prosegue Grossi – il premio Nobel agrigentino ha creato una vera e propria macchina da guerra, ancor oggi efficace per modi e valori. Come Leonardo, che con i suoi funzionanti artifici è stato anticipatore, così Pirandello usa il professor Toti, personaggio principale della vicenda, per snocciolare, come un rosario laico, circostanze di contemporanea efficacia. S’affrontano così la solitudine, la condizione femminile, l’arrivismo dei burocrati, l’invadenza dei rappresentanti ecclesiastici, l’uomo depauperato fino al riscatto d’orgoglio. L’Uomo giusto è solo nella società moderna, i suoi tempi sono rallentati contro quelli convulsi di una crescita che vede vincitore chi “arriva”. Da qua prende forza il burocrate, assertore dell’ordine e della funzionalità, mentre al contempo nasconde la voglia carrieristica dell’arrivista. Tra questi ingranaggi, chi ci rimette di più è la donna, che si vuole sottomessa al giudizio di una società benpensante. E penalizzato è anche il ruolo dell’insegnate bistrattato e mal pagato, ieri come oggi, in barba alla delicata funzione sociale che soprintende. Il potere temporale del clero, qua descritto attraverso la figura di un suo rappresentante, sta nel compiere con superba arroganza tutto ciò che disattende la missione della “Parola”, praticando l’intrigo dell’anticamera come un mandato superiore e inficiando negativamente la maggioranza silente che segue e promulga il Messaggio di Fraternità. Ma alla fine in questa “tragedia civile” a farne le spese è l’uomo stesso, che sostenendo il ruolo del “pupazzo” si piega come canna al vento alla volontà altrui, all’egoismo di quel tipo di famiglia che nega il sentimento di libertà dell’anima».

«Del professore Toti porto in scena la condizione dell’anziano come intesa oggi, non la vecchiaia. Un uomo avanti negli anni ma non spento, tanto egocentrico quanto anticonformista e autentico paladino dei valori». Così Gullotta descrive il suo personaggio, aggiungendo un nuovo ruolo pirandelliano alla sua straordinaria galleria di protagonisti.

La commedia è un’audace denuncia: nata in veste di novella nel 1910, poi volta in testo teatrale nel 1917, contiene molti ragionamenti, luoghi comuni e assiomi pirandelliani, che condannano una società becera, pettegola, calunniosa, dissacrante e bigotta.

Agostino Toti, per sottrarre Lillina al destino di ragazza madre, dal momento che il coetaneo Giacomino, che ama e da cui è riamata, non ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e vincere le resistenze della propria famiglia, propone alla ragazza un matrimonio “di facciata” che garantirà alla giovane una pensione anche quando lui non ci sarà più. Nel suo disegno, anche una beffa allo Stato, su cui Toti è felice di rivalersi visto il magro stipendio percepito per i lunghi e faticosi anni d’insegnamento, e alla società borghese.

Provvedendo al benessere e al rispetto per Maddalena, e dando un lavoro in banca a Giacomino, Toti assume il “controllo” della situazione e crea le condizioni affinché donna e figlio vivano la pienezza affettiva dei legami, dove il padre biologico, vero effettivo marito, è richiamato e risvegliato ai doveri e alla verità dei sentimenti.

Grossi, nel ridurre i tre atti in atto unico, ha limato due figure di un certo peso, la sorella di Toti e il canonico Landolina che, nel testo originario, incrementano la polemica pirandelliana per le sfaccettature di cui sono connotati. Lavorando di bulino sul preside del ginnasio e sul bidello, ruolo affidato al giovane talento catanese Valerio Santi, Grossi ha trasferito su di loro il maggior onere di portare in scena difetti e peculiarità negative. Soprattutto il bidello, in questa versione, ne assume su di sé la gran parte. Santi gioca il suo personaggio con cifra parodiante, goffa e tragicomica, esaltando l’arguzia di Toti mattatore e burattinaio del microcosmo costruito dal genio di Pirandello, per affrontare problematiche nuove e originali che esploderanno nella seconda metà del secolo breve.

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