“Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità”, recensione

 “Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità”, recensione

Angela Ganci

 

Dal 3 Gennaio, in tutte le sale cinematografiche italiane, è in programmazione il film Van Gogh: sulla soglia dell’eternità, una pellicola commovente, capace di creare pathos, partecipazione emotiva, dai toni drammatici, cupi, che racconta un personaggio, un artista, una vicenda umana travagliata e geniale.

 

Un film che lascia, fin da subito, da un lato, con un potente velo di tristezza e impotenza per la crudezza delle immagini e delle vicende a carico del protagonista, dall’altro esterrefatti per la bellezza abbagliante di un’arte di fiori e natura che trae origine e ispirazione dai dolori umani fino a demarcare il confine tra genialità e follia.

 

Una “follia geniale” che si estrinseca nello stile eccentrico tipico di ogni artista solitario, ispirata da un’atmosfera di dialogo tutto intimo con una Natura splendente e ricca di vita, attraverso cui dare tregua al dolore, intrisa di lotta contro se stessi, le proprie imperfezioni, paure e irrazionalità, non comprensibile a tutti.

 

Questa, almeno, la storia personale e artistica di Vincent Van Gogh, che il film riprende e dipana fino agli ultimi giorni di vita del pittore, in una concatenazione di eventi biografici, noti al grande pubblico, che connettono l’arte alla malattia, anzi che spiegano la “necessità” della sofferenza come fonte dell’arte stessa, contemporaneamente cercando, attraverso pennellate di colori vivaci, leggerezza e luce nell’oscurità dei propri fantasmi interiori.

 

Molti infatti gli scenari pittoreschi di luce gialla e arancione, degni della tradizione di Van Gogh, dove tra praterie e cieli dal colore blu acceso troviamo il pittore, che si gode la solitudine dell’Artista, con al seguito i fedeli pennelli e i libri di Shakespeare.

 

Un’eccentricità che si accompagna a difficoltà oggettive di vita, a una miseria economica che sembra passare in secondo piano per l’Uomo Van Gogh, quello che vive di Arte, che continua a dipingere quadri di fiori perché “quelli veri muoiono, mentre i miei non moriranno mai”, che “non arriva a pensare di non essere pittore, nonostante i suoi quadri non si vendano”.

 

Ecco che, tra gli ampi spezzoni di paesaggi naturali e colonne sonore struggenti, ciò che colpisce sono i primi piani delle tele del pittore, il suo passeggiare tra sassi, boschi, sempre con la tela in spalla, alla ricerca di un qualcosa di indefinito, che dia libero sfogo alle tenebre dell’anima e che dia pace e conforto a un’inquietudine interiore irrefrenabile.

 

Ricerca di se stesso, del proprio soffio vitale, dell’eternità dello spirito appunto, della ragione dell’esistenza, quesiti ineludibili per un pittore “en plein air” che suscita curiosità, ritenuto folle, fallito, solo nei campi a dipingere la propria miseria umana, a dare voce ai propri deliri di annientamento e alla ricerca spasmodica di un’oasi di serenità per se stesso, bistrattato dai passanti dei campi, deriso e malmenato, fino al ricovero in un ospedale psichiatrico, dove il degrado umano occupa gran parte della proiezione e dell’ultima parte del film.

 

Un uomo sofferente Van Gogh, perseguitato da “visioni non sempre buone, con il rischio di uccidere o uccidersi”, fonte di genio pittorico, e luogo mentale da cui rifuggire attraverso i colori dei suoi girasoli, in continuo dibattito artistico con l’amico Gauguin, che gli contesta l’impulsività delle pennellate veloci, intense, mentre van Gogh vuole essere “libero di dipingere all’aperto”, senza riflettere, perché così si sente libero e incontra Dio.

 

Si percepisce la tensione disperata della ricerca del senso di una vita che sfugge, di una solitudine insopportabile, di una minaccia incombente e mai attuale, che culmina quando l’amico di sempre deve partire, scatenando il dramma di un Van Gogh capace di tagliarsi un orecchio per non sentire le parole di abbandono di Gauguin, che si rifugia nuovamente in una pittura, la sola capace di calmarlo e dargli valore.

 

Un uomo che dipinge la Natura come riflesso di Dio e che ha ricevuto da Dio un talento, quello della pittura appunto, un uomo convinto di essere pittore, che si vede pellegrino, non celebre e non riconosciuto, su questa terra, che si paragona a Gesù, misconosciuto egli stesso per tutta la sua vita terrena.

 

Un pittore “povero”, ma convinto di essere un buon pittore, anche se vive nella miseria, come dirà nel dialogo fitto con un cappellano all’interno del manicomio in cui è recluso.

Un uomo giudicato sulla sanità mentale, ma che in effetti teme la salute perché “la tristezza aiuta l’arte”.

 

Se il film regala interrogativi, dubbi al confine con il delirio mistico, con scene forse di cattivo gusto (come nella deposizione della salma di Van Gogh, circondata dai suoi quadri e da musiche lente e meste), l’unica certezza (almeno per il protagonista) è il gusto dell’Arte, una passione che giustifica un’esistenza, un’esistenza insensata che trova nell’Arte un giustificato motivo, un conforto, un sentirsi vivi, ristorati e utili, attraverso la pittura.

Questo appare, nel complesso, il messaggio tragico e salvifico del film “la sua anima amava il giallo perché temeva la nebbia”, poiché si anela sempre alla bellezza e alla salvezza di Sé, e questo vale anche negli stati psicologici più degradati.

 

E di giallo si compone l’effetto scenico finale, con tanto di voce narrante, che lascerà stupito il pubblico, con un insegnamento (tutto da scoprire), che vale l’intero film, riabilitando l’Uomo e l’Artista e il valore di opere oggi acclamate tra le più valide e costose della pittura di tutti i tempi.

 

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