“Green book”, un film sull’amicizia

“Green book”, un film sull’amicizia 

Angela Ganci

New York City, 1962
Tony Vallelonga, detto Tony Lip, italoamericano, dai modi volgari e dallo spiccato razzismo verso i neri e il dottor Donald Shirley, musicista nero, chiamato per concerti nel Sud degli Stati Uniti: un incontro di due differenze, un incontro umano, quello che costituisce il cuore del film Green Book di Peter Farrelly, premiato come miglior film alla 91esima edizione degli Oscar del cinema, a indicare come l’amicizia, al di là dell’etnia e del pregiudizio, sia possibile, da valorizzare e di spiccata attualità.
Ecco che,dopo un’iniziale titubanza legata al fatto di lasciare la moglie da sola per otto settimane, Tony, chiamato ad accompagnare il raffinato musicista, tanto diverso da lui per comportamento, lungo un tour musicale dalle forti prospettive economiche, verrà catapultato verso un “viaggio” reciproco fatto di rispetto e solidarietà.
Un iniziale obiettivo monetario, dove un bianco accompagna un “negro”, così viene definito nel film, che si trasforma in una convivenza delle differenze tutt’altro che facili tra l’uomo istruito e impeccabile nell’abbigliamento, eppur solo al mondo, e il bianco, con una famiglia amorevole che lo attende, dal turpiloquio facile, che mangia pollo fritto con le mani e lo offre con disinvoltura al nero, il quale, sempre ben attento a non ungersi, non lo disdegna, con ilarità di entrambi.
L’uomo bianco, che spesso utilizza luoghi comuni di stampo razzista, eppure in grado di superare i pregiudizi e mostrare un’alleanza e un’amicizia sincere, come quando difende il pianista che viene aggredito, addirittura simulando di possedere una pistola.
Green Book, infatti, al di là del suo presentarsi come un film sulle differenze, può definirsi quindi un film sulle comunanze nate dalle differenze, o meglio sulla solidarietà tra chi “presta” al servizio dell’altro ciò che possiede, come nell’ironica scrittura delle lettere d’amore poetiche spedite alla moglie da Tony, ritoccate ad arte da Shirley che finisce così per divenire il “consigliere sentimentale”, attirando i complimenti della moglie.
span style=”font-size: 14pt;” />Un aiuto amichevole da parte del nero, che corrisponde a un aiuto da parte del bianco, in una vicinanza che colma la solitudine del pianista damerino, che suona per i bianchi per poi sentirsi nuovamente solo, che non sa più chi è, se non colui che viene pagato e osannato come professionista, per poi essere confinato in un angolo, in quanto uomo di colore.</span><br /><span style="font-size: 14pt;">" "n questo aiuto reciproco e sostegno di una solitudine quasi innominabile, può svilupparsi un’autostima che porterà Shirley a rifiutare un importante concerto perché discriminato da coloro che, pur pagandolo per sentirlo suonare, si rifiutano, per principio, di includere un nero alle cena che precede il concerto, a delineare l’importanza del “fare prima per sé che per il paese”, a pensare al proprio benessere, all’amor proprio, egoisticamente inseguendo i veri affetti che non discriminano e ti accettano, al di là di ogni imperfezione. </span><br /><span style="font-size: 14pt;">Una solitudine,"in un certo senso, auto-inflittasi, quella che si ritrova in Shirley, allorché accetta il ruolo strumentale di “genio della musica”, utile a soddisfare i piaceri di un pubblico pagante, dimenticandosi però di far precedere il titolo di “Gran Pianista”dalla “Persona”, bisognosa di calore umano, abituata in fondo a mettersi da parte, in un’abitudine malsana (nata da rifiuti ripetuti basati su irrazionalità di stampo razzista) a dubitare di tutti, delle loro amichevoli intenzioni, come quando rifiuta l’invito spontaneo di Tony e della sua famiglia per Natale.</span><br />span style="font-size: 14pt;" />A questo punto il film, che n"lla sua successione rapida, regala colpi di scena, allegria, paesaggi naturalistici suggestivi, e scene di solidarietà, arriva a una svolta, alla decisione finale: il Re della Musica, sul suo trono che lo protegge da un bisogno di amore inascoltato, unito a una punta di orgoglio (come nella titubanza di chiamare per primo il fratello che non vede da anni) riuscirà a fare il primo passo, per accettare l’ingresso nel mondo forse più rozzo del bianco, infrangendo la corazza di un cieco vittimismo che protegge dal rifiuto? Riuscirà in questo, ricordando che in fondo è la persona stessa a doversi liberare della propria solitudine, concedendosi la pace e il conforto nati dal circondarsi dei veri affetti, e credendo che esista Altro oltre al destino dell’esclusione?</span></p>""”

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