Dramma sacro “La Diavolata” di Pasqua, tra racconto di Giuseppe Lazzaro Danzuso dal libro “Ritorno all’Amarina” sca’ntu e tramutu per i diavulazzi, e rappresentazione sul palco della grande piazza Umberto di Adrano

Dramma sacro “La Diavolata” di Pasqua, tra racconto di Giuseppe Lazzaro Danzuso dal libro “Ritorno all’Amarina” sca’ntu e tramutu per i diavulazzi, e rappresentazione sul palco della grande piazza Umberto di Adrano

 

Lella Battiato Majorana

 

In scena sul palco montato al centro della grande piazza Umberto di Adrano la storica “Diavolata”, che simboleggia in forma allegorica l’eterna lotta tra il bene e il male, ogni domenica di Pasqua. Manifestazione di carattere religioso chiamata in gergo “I diavulazzi di Pasqua”, rappresentato intorno all’ora di pranzo, da alcuni anni anche la sera, attirando grazie agli effetti dell’illuminazione artistica. Essa, rimasta intatta nel tempo e unica nel suo genere, fa parte del testo de La Resurrezione, scritto nel 1728, nello stile alfieriano allora in voga da un canonico, il poeta locale Don Anselmo Laudani; fa parte di un corpo unico che prevedeva l’Angelicata.

Messa in scena da attori locali che tramandano di padre in figlio modi, gesti, e versi, i diavoli cercano di convincere l’Umanità a restare dannata poiché il cadavere di Gesù Cristo, che è risorto, non è più nel sepolcro, ma interviene l’Arcangelo Michele, sconfiggendo definitivamente Lucifero. Segue “L’Angelicata”, rappresentazione che costituiva la seconda parte del dramma di Don Laudani, narra l’incontro tra Maria e il figlio Risorto, che la proclama Regina del Cielo, messo in scena solo dal 1980. Di questa seconda parte non risulta storicamente chiara la destinazione.

Una storia fascinosa che sempre ha attirato l’immaginario collettivo, e in questo caso quello dello scrittore Lazzaro Danzuso, di origini adranite, innescando la chimica dei ricordi, che lo ha portato a scrivere un emozionante libro che diventa un almanacco di fatti in cui tutti ci possiamo specchiare, ornato dal suono del  dialetto in cui riecheggiano voci popolari.  “Noi siamo cunti con le gambe, sottolinea Lazzaro Danzuso, perché è il racconto che ci fa umani”.

Per gentile concessione dell’editore, riportiamo un brano del libro tratto da “Ritorno all’Amarina” (Fausto Lupetti editore) del giornalista e scrittore Giuseppe Lazzaro Danzuso, di origini adranite, giornalista catanese, documentarista e scrittore (ha pubblicato circa 20 volumi di saggi, in particolare sulla Sicilia e le sue tradizioni popolari, e sulla nascita della tv privata) ama profondamente la sua terra,il suo libro inizia con l’evocazione dell’Amarina, lo sciroppo di amarena tirato fuori dalla dispensa della sua casa dei Castelli Romani (in cui scontava un piccolo “esilo”), il 31 dicembre 1999.

La Diavolata era una cosa spettacolosa. Per la Pasqua si faceva, alla domenica: alla mattina mia nonna e le ziane mi facevano trovare il cicilìu con le uova dure e i diavulicchi di zuccuru acculuratu sopra la pasta di pane e certe volte puru l’agnello di pasta reale. Io me lo aspettavo, il cicilìu, perché il giorno prima, per tutta la matinata, la nonna e le ziane si mettevano con le scope di saggina a darci corpa sutt’e letti e sutt’e mobili per fare scappare al dimoniu che si era ammucciato là sotto dopo che aveva saputo della Risuscita. E mentre chiantavunu corpa di scupa ripetevano a vuci di testa: «Nesci nesci diavulazzu ca lu sabbutu santu vinni»

A me il sabato di Pasqua mi piaceva, no il venerdì che c’era la processione del Cristu a la culonna sutta ’i finestri della casa della nonna, di notte, e a me mi faceva sca’ntari assai. Quel Cristo pena mi faceva, ché era tutto sminnittiatu (lazzariatu dicevano gli altri, ma nella famiglia mia no perché Lazzaro ci chiamiamo) con i capiddi pinnenti chini di sangu. Ma più assai mi piaceva la domenica, per il ciciliu e per la Diavolata.

Sopra il palco montato davanti al castello c’erano i diavuli e i virseri che diceva mia nonna Carlotta quando s’annerbuliava. Ma no diavuli per finta. Diavoli per davvero, vivi: due niuri niuri e con due corna e uno, chiù ’mpurtanti, con tre, che ci aveva puru l’ali niuri di la taddarita. A me i diavoli mi facevano sca’ntu e tramutu, ma no quanto la Morte. Era tutta giallinusa e tirava bistem’ii e schigghi perché si voleva portare all’Umanità che era un picciriddu comu a mia. E ’nveci l’Ancileddu, che era un altro picciriddu, lo fermava con la Spada di Dio. Allora la Morte che ci aveva l’arcu e la fleccia, faceva scumazza sopra il palco. Poi li rumpeva, arcu e fleccia e c’i jittava a li genti, ca erunu a migghiara e migghiara in tutta la chiazza. E quando la morte buttava questi pezzi di legno i cristiani si sciarriavano per prenderseli che dice che portavano fortuna.

Carmelu me l’aveva cuntato che uno, una volta, si era afferrato uno di quei pezzi di legno, se ne era scappato subito a giocarsi i numeri del lotto e aveva vinto ’n saccu di palancheddi”

Un testo che ci riporta indietro nel tempo ma ci avvolge di una realtà contemporanea che ancora oggi è attesa e attira migliaia di turisti. Lo scrittore riesce a mettere in luce gli aspetti più incisivi del dramma sacro, intrecciando il dramma nel contesto territoriale di appartenenza con un registro linguistico che gioca tra metafora e sinossi. Né manca l’ancestralità che scava nel labirinto verticale dell’uomo per raccontare una tappa della vita in sinergia tra ciò che accade intorno e dentro. L’evento sancisce la transizione a un altro modo di essere e di pensare, è la comparsa di un  bisogno che cerca di farsi spazio tra i ricordi e aiuta il lettore a ricostruire il passato storico dipanando i fili attorcigliati della memoria. Tra mito e rito dà forma a un percorso di vita adolescenziale, attraverso i ricordi, che assume il pathos del tempo adulto tra variazioni di stile, esaltando lo stato d’animo intimo che diventa collettivo creando un ponte fra lo scrittore e gli altri.

Lo spettacolo, si muove attorno ai personaggi principali: i diavoli (Lucifero, capo dei ribelli, Belzebù Signore delle Mosche, Astarot, con le sue 40 legioni), la Morte, nemica dell’uomo, l’Umanità, simbolo della speranza, e l’Arcangelo Michele, avversario del demonio.

Prima della rappresentazione vengono portati in giro per la città i tre protagonisti del dramma: il Salvatore, la Madonna e l’Angelo; finale suggestivo, davanti la chiesa di Maria SS. Ausiliatrice detta Santa Chiara, l’incontro tra Maria e Gesù.

 

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