Introduzione al dibattito

Abbiamo letto con interesse, piacere e apprezzamento il  richiamo del rabbino Ventura all’episodio biblico di Caino e Abele pubblicato sul quotidiano locale di sabato, nel quale il primo è mosso dall’istinto del possesso e della gelosia, il secondo incarna la generosità e l’altruismo. Suona quindi felice e saggia, e Ventura lo sottolinea appropriatamente, la domanda di Dio “dov’è tuo fratello?”; non gli muove rimprovero. Non gli chiede “cosa hai fatto?”: dov’è tuo fratello, nel disegno di Dio i due fratelli dovevano vivere entrambe, erano necessari l’uno all’altro, erano, appunto, fratelli. Se posso concedermi un’arditezza, nel disegno divino erano il cinese yn yang dell’umanità.

L’espansione e il dominio di Roma su gran parte dell’Europa, del Nord Africa e del Medio Oriente, determinò cosmopolitismo e lo sciamare di etnie e popoli, come gli ebrei, da cui storie, episodi e vicende di vario genere. Nello Stato Pontificio, l’esazione delle tasse era affidata agli ebrei, dal che il detto “meglio un morto in casa che un marchigiano dietro la porta” poiché Ancona era il porto di approdo dei popoli orientali.

Alberto Savinio, poliedrico fratello del pittore Giorgio De Chirico, nel suo Narrate uomini la vostra storia include un saggio su Nostradamus (Michel de Notre Dame) prendendo spunto dalla cristianizzazione del padre Pierre, l’ebreo Guy de Gassonet: una scelta che il figlio accolse con gioia poiché intendeva mantenere lo status di chierico vagante, ovvero studente universitario. Secondo Savinio, Nostradamus aveva il dono di profetare in quanto epigone della tribù dei profeti. Tesi originale e interessante.

Nel saggio il personaggio è detto Signore di Nostra Donna, in quanto padre e figlio vennero battezzati a Notre Dame di Parigi e cognomizzarono il luogo (fosse stato più devoto, Savinio avrebbe meglio tradotto in Nostra Signora, ma Savinio è sorprendete sempre): lo spessore e il valore dei vaticini del Signore di Nostra Donna discende, oggi diremmo, dal suo dna.

Nei secoli gli ebrei subirono numerose persecuzioni: nel 1492, l’editto di Granada, stilato tanto per non farsi mancare nulla dal gesuita Torquemada, decretò la conversione o l’espulsione degli ebrei: in un’Europa distratta ed ammirata per la scoperta dell’America o la circumnavigazione dell’Africa, gli ebrei venivano espulsi dalla Sicilia dove erano presenti, come risulta da dati archeologici, sin dal III sec. A. C. Il mondo andava verso l’evo moderno e altrimenti arretrava al Medioevo.

Non è  peregrino osservare che mentre i re cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona espellevano gli ebrei, lo Stato Pontificio, il cui sovrano è il capo della Chiesa Cattolica, non ci pensava affatto, anzi ne apprezzava la presenza e assegnava loro una importante funzione: l’esazione dei tributi, mestiere che un buon cristiano non poteva fare. Dalla consistente presenza di ebrei nelle Marche (il porto di Ancona era un approdo importante per le rotte da oriente e vi era insediata una consistente colonia ebrea) il detto meglio un morto in casa che un marchigiano dietro la porta.

Ironia della storia, tre secoli dopo i gesuiti furono espulsi dalle nazioni cattoliche e successivamente il loro ordine fu sospeso fino al 1830. Oggi il Pontefice cattolico, per la prima volta, è un gesuita.

Quando dirigevo ed editavo Foglio d’Arte, un giorno venne nel mio ufficio un medico dichiarandosi oplologo.

Venne a più riprese raccontando cose interessanti. Una volta mi disse di un sistema ideato da un artigiano ebreo che da Mineo espatriò in Germania: un meccanismo per eccitare la pietra focaia di fucili e rivoltelle del tempo, oggi in bella mostra in un museo tedesco catalogato come meccanismo di Francoforte. Tra me e me pensai su come e quanto l’umanità si è impoverita per le diaspore o, peggio, i genocidi.

Provvedimenti medievali, di un’epoca in cui, tra le pene, erano previste anche le mutilazioni fisiche e si annientavano le stirpi: un’epoca nella quale nessuno era libero; i feudatari  erano in potere del sovrano, i vassalli del feudatario e così discendendo sino ai servi della gleba. Chi oggi ritiene di avere potere supremo sui popoli regredisce al Medio Evo: così fu per l’Unione Sovietica, così oggi è in Russia, Iran, Cina, Medio Oriente e Africa. Il consistente seguito con cui i sovrani viaggiavano per le loro provincie era sì un’ostentazione pomposa, ma anche una misura prudenziale per evitare di essere catturati dal nobile che li ospitava.

Venendo ai nostri giorni, nel medioevo degli stati totalitari l’oligarca equivale al feudatario: il suo potere non è più il mero e misto imperio su un territorio, bensì il monopolio di produzioni strategiche con le quali condiziona i mercati e il potere politico dello Stato di suo riferimento.

Il mercato è la nuova divinità, la nuova religione, il discrimine odierno.

Diversi anni fa, un genitore islamico protestò per l’esposizione del Crocifisso in classe: per me fu il momento di affiancare nelle aule scolastiche la stella di Davide, o il candelabro, e la mezza luna: simboli delle religioni abramitiche mediterranee, per dare visibilità e concretezza alla libertà di religione sancita nella nostra Carta Costituzionale. Ma quando esposi questo mio punto di vista raccolsi solo critiche e proteste.

Oggi, anche se a Catania non si è realizzata la piazza delle tre culture ideata da un mio amico, abbiamo una moschea di tutto rispetto e, in questi giorni, è sorta la sinagoga.

La Convenzione per la prevenzione e repressione dei genocidi, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, la dobbiamo all’impegno dell’ebreo polacco Raphael Lemkin.

Per lui, il ricordo di vittime e sofferenze si sarebbe perpetuato se l’umanità si fosse presa l’impegno morale di impedire nuovi genocidi. A mio modo di vedere, le diaspore non sono da meno: gli sradicamenti di massa sono sempre drammatici.

Raccontare la Shoah e la sua singolarità, come qualcosa di totalmente diverso da altri genocidi, distinguere l’antisemitismo da altre forme di odio, o persino i giusti della Shoah come una manifestazione di resistenza morale degli esseri umani non paragonabile con altri contesti, rischia di tenere ancora gli ebrei nel ghetto, separati dal resto dell’umanità in una separatezza perenne.

Presentare gli ebrei come un mondo a parte, elide la possibilità di una vera empatia, senza la quale il dramma ebraico non può venire compreso. Viene così meno la possibilità di una alleanza tra gli ebrei e le altre minoranze perseguitate nella storia.

Peraltro, l’Italia tutta fu vittima della follia nazista: ai due madornali errori di Mussolini (l’emanazione delle leggi razziali e l’entrata in guerra) scaturiti dalla fascinazione e ammirazione che provava nei confronti di Hitler, fece seguito un’atroce sofferenza: i soldati italiani, considerati traditori, vennero catturati dai tedeschi e inviati ai cosiddetti internati militari italiani: campi di concentramento senza servizi, cioè senza camere a gas, i cui detenuti accudivano i campi di concentramento per ebrei.

Non comprendo perché questa realtà storica venga taciuta, come per svariati decenni venne taciuta la tragedia delle foibe! L’Italia è impareggiabile nel farsi del male da sola.

A mio modo di vedere, il Giorno della Memoria sarebbe maggiormente importante e significativo se non si incentrasse sull’“esemplarità” della persecuzione ebraica, che oggi io vedo sorella di tante altre persecuzioni. Ricongiungendola a queste, si deve ragionare sui meccanismi universali che possono portare a nuovi genocidi. Se uno studente in una classe nel Giorno della Memoria non capisce che quanto accaduto a un ebreo potrebbe capitare un giorno anche a lui in qualsiasi parte del mondo, non sentirà più il bisogno di diventare parte di una catena della memoria e non si porrà domande sul suo futuro. La memoria diventerebbe un pensiero formale e molesto, tutt’altro che un impegno morale.

La memoria tutta concentrata sull’unicità della Shoah, non porta a indagare e ragionare sugli altri genocidi del Novecento.

È intelligente e vantaggioso, viceversa, legare la Shoah ai genocidi armeno, curdo, cambogiano, ruandese: la mancanza di una legge internazionale di prevenzione dei crimini contro l’umanità negli anni Trenta permise a Hitler, in uno con la balorda idea della divisione dell’umanità in razze, di tentare il velleitario annientamento degli ebrei.

Considerare il conflitto nel Karabakh tra armeni ed azeri uno scontro tra stati e non la conseguenza di una ferita aperta dalla mancata conciliazione tra armeni e turchi cambia la prospettiva e il significato, diverso dal riconoscimento della colpa da parte della nazione tedesca al termine della Seconda Guerra Mondiale.

La mancata comparazione tra nazismo e totalitarismo sovietico, osserva François Furet nel suo testo più famoso “Il passato di un’illusione” rimane un limite pesante causato da un pregiudizio positivo: pensare che l’esperimento sovietico che portò ai gulag e ai milioni di morti fosse stato fatto a fin di bene e non fosse invece una modalità politica di distruzione della pluralità umana.

Così sono molti in questi giorni, abbagliati da un’illusione pacifista, coloro che non hanno compreso la dinamica che ha portato all’invasione russa dell’Ucraina, come se si trattasse solo di risolvere un conflitto deprecabile tra due potenze militari. Non solo non si è indagato l’Holodomor, la carestia per fame di Stalin come genocidio degli ucraini causato dalla loro resistenza alla dominazione sovietica, osservava Raphael Lemkin, ma non si comprende che quanto accade oggi è un nuovo tentativo di genocidio  culturale di una nazione.

L’attacco odierno a una nazione sovrana portato con perfidia e ferocia spargendo morte e distruzione ai danni di un popolo e di una nazione non è un’operazione politico-militare, è un ritorno al passato, alle peggiori pratiche attuate in passato. È il tentativo di uno sradicamento e di un’umiliazione di massa.

Putin oggi si trova impantanato per un aspetto che non considerava e col quale deve fare i conti: l’amor di patria e l’attaccamento a tutto quello che fa di un popolo una Nazione: storia, cultura, tessuto sociale, case e monumenti. Ed è impreparato.

L’attualizzazione del Giorno della Memoria deve far cessare la rappresentazione degli ebrei “mondo a parte”: le comunità ebraiche, così, perdono la possibilità di una vera empatia, senza la quale il dramma ebraico, quello di un tempo e quello odierno, non può venire compreso.

Tornando all’esegesi del rabbino Ventura del racconto biblico di Caino e Abele, l’umanità nel disegno di Dio deve essere tutta affratellata e in pace. È questo, al fondo, il valore e il messaggio del Giorno della Memoria.

Carlo Majorana Gravina

Carlo Majorana Gravina