Trauma infantile e conseguenze evolutive
Trauma infantile e conseguenze evolutive
Il contributo del modello relazionale neuro affettivo
Angela Ganci*
Contatto con sé stessi, il proprio corpo e le relazioni affettive, sintonizzazione, fiducia, autonomia, amore/sessualità: bisogni centrali per uno sviluppo armonico, la cui mancata realizzazione, a seguito di traumi evolutivi, in particolare derivati da abusi infantili, conduce necessariamente a squilibri psicofisici e confusioni identitarie, che la psicoterapia ha il compito di riequilibrare, riconsegnando al paziente il senso del proprio diritto di esistere, della propria vitalità e integrazione.
Dal nascere della scienza psicologica il trauma infantile e le sue ripercussioni sullo sviluppo costituiscono temi di rilevanza clinica e sociale, nella misura in cui le difficoltà di soddisfacimento dei bisogni di accudimento primario inevitabilmente si ripercuotono negativamente sull’autostima, il senso di sé e delle proprie potenzialità, dove il primario rispecchiamento di una fragile identità nelle conferme ricevute dalle figure di accudimento fornisce al bambino la solidità interiore utile a fronteggiare le sfide evolutive che ciascuna età propone in direzione di autonomia, autoefficacia, auto-direzionalità e felicità.
Come reagisce allora un bambino di fronte alla minaccia di un accudimento negato?
La risposta è da rintracciarsi nella strutturazione di stili di sopravvivenza che, formatisi nel corso delle primissime fasi di vita, come tentativi di adattarsi a un ambiente ostile e proteggere le figure di accudimento, si cristallizzano in età adulta come modalità patologiche di essere e relazionarsi a se stessi e agli altri.
A titolo esemplificativo, lo stile di sopravvivenza Connessione, il più precoce e pervasivo, poiché risalente ai primi sei mesi di vita, si caratterizza per una sconnessione dal proprio corpo, dai propri sentimenti e dal mondo, con la conseguenza di non sapere ciò che si prova a livello emotivo e corporeo e l’incapacità di relazioni intime. Il proprio sé viene così vissuto come fonte di vergogna, gli altri come minaccia, “fonte di abbandono, a cui non attaccarsi per la mancata percezione di sicurezza del legame”, da cui isolarli, attraverso la spiritualità o professioni prestigiose che testimoniano la soddisfazione delle aspettative sociali, una facciata sorridente in grado di mascherare il vuoto e il dolore di una vita emotiva frammentata, di una paura del legame che diventa sia paura dell’incontro con l’Altro che paura della rabbia rivolta verso di Sé per un rifiuto inaccettabile, da meritare per la propria intrinseca inutilità.
Per i tipi Connessione entrare a contatto con il proprio corpo è impossibile, perché “sentire equivale a sentirsi un bambino traumatizzato e terrorizzato”, entrare a contatto con la rabbia significa esserne sommersi, morire, nella misura in cui il corpo è depositario di elevati livelli di attivazione, espressione dell’iper-attivazione del sistema simpatico, delegittimando in tal modo il diritto di esistere e restringendo la propria vita per gestire l’eccesso di stimoli, senza la capacità di consolarsi e regolare il senso di vuoto e perdita, e preferendo un’immagine di sé buona, in contrasto con la cattiveria dell’abusante.
Ecco la voglia di contatto e amore contrastata dalla paura di essere annientati, dove le emozioni dominanti sono vergogna e rabbia per se stessi, per il fatto di sentirsi vulnerabili e bisognosi di cure, talvolta disfunzionalmente affrontate da identificazioni basate sull’orgoglio del Non avere bisogno di nessuno; in questa ambivalenza esistenziale si pone il ruolo di una psicoterapia che non trascuri le strette connessioni tra mente e corpo, pensieri ed emozioni, progettualità e risorse interne.
In questa cornice un contributo prezioso è costituito dal Modello Relazionale Neuro affettivo (NARM), modello di psicoterapia che pur non ignorando il passato, mette maggiormente in risalto le risorse del presente, la resilienza e la capacità di essere connesso con se stesso e con gli altri, a tal fine avvalendosi della pratica Mindfulness.
Il terapeuta, agente del cambiamento di modelli affettivi disfunzionali, si attiverà per comunicare ai clienti di essere consapevoli del carico emotivo che portano, intensificando gradualmente il contatto fisico ed emotivo, prima verbale e poi visivo, affinché si inizi a percepire se stessi e gli altri come fonte di benessere e non di minaccia, disidentificandosi dall’eccessiva autonomia o dall’eccessiva dipendenza.
Nel Modello Relazionale Neuroaffettivo (NARM), ideato da Heller e La Pierre, il fine è di far riemergere rabbia e dolori inesprimibili senza farsi travolgere,rievocando esperienze positive, fornendo feedback compassionevoli sul modo di agire l’aggressività verso l’interno, con il fine integrarla nel proprio Sé, sostenendo la vitalità e l’espansione, e regolando il sistema nervoso. La terapia riuscirà così a rinegoziare l’esperienza di vergogna, riprendendo il contatto con le esperienze non verbali del corpo, sorretti dal terapeuta, fonte di accudimento, o dal ricordo di figure significative, fonte di calore, e che si possono rintracciare in ogni forma di abuso, in particolare nei traumi da shock.
Il recupero di ricordi felici, di qualcuno che è stato in grado di dare calore, o la focalizzazione sull’esperienza affettivamente nutriente di un terapeuta empatico, sostengono la stabilità del corpo e del sistema nervoso, promuovendo l’autoconsolazione. Ciò non è in contrasto con l’elaborazione dei ricordi traumatici del passato, ma parte dall’evidenza che concentrarsi sulla disfunzione rischia di rinforzarla, rischiando di rendere l’anamnesi personale più importante dell’esperienza presente, mentre è importante mantenere una duplice consapevolezza, del passato e del presente.
Un ricordo con funzione di contenimento relazionale che detiene il potere terapeutico di riconnettere a se stessi, ammorbidendo la rigidità dei muscoli, alleggerendo il respiro, colorando la pelle, permettendo il radicamento nel corpo e favorendo l’esplorazione e la consapevolezza del corpo nelle sue varie parti, in una sorta di ammortizzatore terapeutico, quella base sicura cara a Bowlby, grazie alla quale recuperare o forse ritrovare per la prima volta nella seduta terapeutica la possibilità di conoscersi e accettarsi al di là della passività di un trauma su cui costruire difensivamente un’immagine di sé indegna, dipendente, o al contrario irrealisticamente autosufficiente, frutto di credenze di base cristallizzate, a costo di sacrificare un’intera esistenza, la sola che si possiede.
* Psicologo Psicoterapeuta Giornalista Pubblicista