La commedia di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale Filippo Mancuso e Don Lollò, scritta per Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina, ha inaugurato la Stagione del Teatro Vitaliano Brancati di Catania

La commedia di Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale Filippo Mancuso e Don Lollò, scritta per Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina, ha inaugurato la Stagione del Teatro Vitaliano Brancati di Catania

Carlo Majorana Gravina – foto Dino Stornello

 

Il Teatro Vitaliano Brancati di Catania ha aperto la sua undicesima Stagione con la prima assoluta Filippo Mancuso e Don Lollò, commedia di situazione scritta da Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale per Tuccio Musumeci (Calogero“Lollò” Longhitano) e Pippo Pattavina (Filippo Mancuso); con loro in scena Margherita Mignemi (Nunziata), Riccardo Maria Tarci (padre Imbornone parroco), Franz Cantalupo (Gegè, guardaspalle di Lollò), Lorenza Denaro (Lillian, figlia di don Lollò), Luciano Fioretto (Berto, figlio di Filippo Mancuso); scene Dipasquale; costumi Sorelle Rinaldi; musiche Matteo Musumeci; luci Sergio Noè.

Un divertissement scaturito durante le prove de La concessione del telefono (Stagione 2012-2013; il nostro Mancuso faceva Genuardi di cognome), in cui Musumeci e Pattavina sono alle prese con gli equivoci di una lettera. Nel nuovo testo, la concessione volta in raccomandazione e  inciampa in un imprevisto: l’amore di Berto per Lillina, figlia  di Don Lollò, che non andrà a buon fine, nonostante l’intrigo paesano, per la condotta maldestra dell’innamorato. Morale (amara): l’uomo di rispetto vince sempre, anche per fortuita sorte.

Tutti gli interpreti si sono dati in scena con grande generosità. Pattavina e Musumeci, nei rispettivi ruoli eponimi, hanno sfoderato il loro irresistibile repertorio. Il primo claudicante a causa di una gamba di legno, costretto a un’improbabile postura (tenuta mirabilmente per tutto il corso dello spettacolo) che induce a movenze di quasi danza, padrone assoluto della scena, costruisce situazioni comiche esilaranti; Musumeci, indossando una maschera seria e diffidente tipica di chi frequenta indifferentemente il lecito e  l’illecito, inserendo qui e là da battute di tipica liscìa catanese, con una tempistica teatrale impeccabile lavorano sul dettaglio: pause, sguardi, movenze. Dove Pattavina mette l’altro toglie e viceversa, dando vita ad un gustoso contrasto tra comico e spalla a ruoli alternati.

Margherita Mignemi, nel ruolo di Nunziata cameriera di casa Mancuso chiacchierona e maldicente, in conflitto col padrone di casa schierata a favore di Berto, col quale condivide una sorta di complicità, caratterizza con misura ed efficacia il personaggio, muovendosi con disinvoltura e cambiando registro nelle diverse situazioni. Riccardo Maria Tarci rende felicemente la figura del sacerdote, opportunista ma di buon cuore, che ha Fede in un lieto fine favorito dalla Provvidenza che non verrà.

Franz Cantalupo nel ruolo di Gegè, guardaspalle di Don Lollò, tra toni bruschi e stupidità palese, presenza scenica ingombrante e voce roboante, evidenzia il ridicolo paradossale del malvivente.

La pretesa commedia degrada in divertissement per difetto strutturale drammaturgico: Berto e Lillina, causatori dell’epilogo, sono deboli. Luciano Fioretto, bravo a mostrare che anche il silenzio è una prova d’attore,  e Lorenza Denaro non hanno copione. Gli autori del testo non glielo danno: Lillina risolverà la pièce ribaltando il proprio destino senza spiegare (o spiegarsi) per qual motivo. Forse gli autori hanno avuto premura di terminare un lavoro cui attendevano da quasi dieci anni.

Al termine il pubblico ha comunque applaudito intensamente riconoscendo i meriti di tutti, in particolare dei due mattatori, cui affianchiamo senza timore di smentita Mignemi, Cantalupo e Tarci,  che hanno saputo raggiungere picchi di esilarante comicità nelle piccole cose, nel lavoro di cesello che è quello per cui l’attore si realizza e caratterizza, costruendo l’impalcatura del proprio personaggio, osando nei colori e negli accenti.

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